Nella nuova constituency delle regioni serve un ruolo rinnovato delle assemblee elettive come soggetti intermedi con responsabilità nella gestione delle politiche socio-territoriali. Il riaccentramento istituzionale degli ultimi anni (di poteri, funzioni, risorse, decisioni) non è stato indolore.
Gli effetti: riduzione della partecipazione elettorale nel voto locale e perdita di fiducia negli enti periferici. La spinta alla disintermediazione elude la complessità del Paese e indebolisce la sua storica forza vitale. È quanto emerge da una nuova mappa socio-economica dei territori e da una survey sui consiglieri regionali.
Questi sono i principali risultati della ricerca “Il ruolo della dimensione regionale nell’evoluzione del mosaico territoriale italiano. Una nuova constituency per il prossimo ciclo politico-istituzionale” realizzata dal Censis per conto della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome. In particolare, la ricerca si è soffermata sui seguenti temi:
No alle macro-regioni: la mappatura del mosaico territoriale del Paese realizzata dal Censis evidenzia che le specificità dei territori italiani rimangono elevate, con numerose aree omogenee che tagliano o debordano i confini regionali. La disintermediazione non può funzionare per governarne lo sviluppo. Solo il 28,6% dei consiglieri regionali interpellati dal Censis ritiene che vada perseguito il disegno di macro-regioni: servono invece policy relazionali di livello inter-regionale. È quanto emerge dalla ricerca “Il ruolo della dimensione regionale nell’evoluzione del mosaico territoriale italiano. Una nuova constituency per il prossimo ciclo politico-istituzionale” realizzata dal Censis per conto della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome.
Divari ampi e crescenti all’interno delle singole regioni: la variabilità infra-regionale del valore aggiunto pro-capite supera i 6.000 euro e negli ultimi dieci anni è aumentata in 14 regioni su 20. Analoga situazione riguarda gli aspetti demografici, la crescita delle imprese, la propensione ad esportare, l’andamento dell’occupazione. Le province più deboli accentuano nel tempo la loro debolezza. Questi divari, ampi e crescenti, segnalano l’importanza di tornare a guardare con attenzione ai processi socio-economici che innervano i territori. Le Regioni dovranno dotarsi di sensori della micro-dimensione in grado di offrire una restituzione puntuale di quanto accade nei localismi.
Gli italiani votano sempre meno, ma si amplia lo scarto di affluenza tra le elezioni politiche e quelle regionali: Era del 5% nei primi ’90, mentre oggi si attesta intorno al 15%. La gran parte dei consiglieri regionali (74,2%) ritiene che il regionalismo non “scalda il cuore” degli italiani. E la ragione principale viene individuata nell’incapacità delle Regioni stesse di veicolare il senso del loro ruolo.
Solo il 23% dei cittadini ha fiducia nelle istituzioni locali. Il dato europeo è del 51%. Nelle regioni del Nord la fiducia nelle istituzioni locali è superiore a quella nelle istituzioni centrali. Nel Sud il dato è diametralmente opposto. La maggior parte dei consiglieri regionali (89,6%) mantiene inalterata la fiducia nel futuro della rappresentanza territoriale. Solo il 10,4% manifesta orientamenti pessimisti con riferimento alla perdita di sovranità degli stessi Stati nazionali.
Prioritaria la ridefinizione dei rapporti tra le Regioni e lo Stato centrale: Il 61,2% dei consiglieri regionali (il dato arriva al 76,9% nel Nord-Est) auspica un riordino complessivo del regionalismo italiano. Secondo il 68,3% l’assetto attuale, che prevede una competenza concorrente su alcune materie, viene ritenuto sensato, purché il riparto dei poteri veda lo Stato realmente impegnato solo nella definizione dei principi generali. Si richiede che quando il Governo interviene in materie di sua competenza esclusiva, ma con impatti significativi sulla dimensione regionale, attivi forme di consultazione preventiva e di cooperazione con le Regioni (90,5%).
Sì al regionalismo differenziato: Il 56,3% dei consiglieri regionali è orientato positivamente al riguardo (nel Nord-Est il dato sale al 68%). Solo il 23% ritiene che le Regioni debbano esercitare ovunque le stesse funzioni. Della questione si dibatte dal 2001 e nel frattempo si è delineato un regionalismo differenziato di fatto. Basta osservare gli esiti dell’attività delle Regioni nelle competenze loro attribuite: in materia di sanità la quota di popolazione che si ritiene soddisfatta in alcune regioni supera il 60%, in altre è inferiore al 20%.
Sì a una maggiore autonomia su specifiche materie: La pensa in questo modo l’88,9% dei consiglieri regionali, come previsto dall’art. 116 della Costituzione. Su questo tema alcune Regioni si sono già mosse avviando trattative con il Governo nel 2017 (Lombardia e Veneto, anche a seguito degli esiti positivi dei referendum regionali). Si orienta in questo senso la quasi totalità delle opinioni dei consiglieri del Nord. Nel Centro e nel Sud la percentuale scende al 76%.
L’elezione diretta dei presidenti non ha aumentato la capacità di incidere delle Regioni: Ne è convinto il 72,6% dei consiglieri regionali. Tutti ritengono che la dimensione politica (appannaggio dei Consigli) sia stata progressivamente sganciata dalla dimensione istituzionale (ancorata all’operato degli esecutivi) e che questo abbia estromesso le assemblee elettive dal campo del policy making.
C’è un forte bisogno di rappresentanza dei territori: Lo pensa l’89,6% dei consiglieri regionali. Il 48,4% è convinto che siano diventati luoghi sterili, simulacro di un’antica cultura istituzionale, dove al più si ratificano le decisioni degli esecutivi. Per uscire dall’impasse si chiede un rafforzamento delle prerogative delle assemblee elettive nell’indirizzo strategico e nella definizione dell’agenda regionale. La mission percepita riguarda la crescita economica della regione piuttosto che l’idea della rappresentanza.
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