Il 15,8% dei decessi legati alla pandemia da COVID-19 negli ospedali italiani ha riguardato persone affette da demenza.
E’ quanto evidenziato dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità che, in uno studio apparso su Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring, hanno esaminato le cartelle cliniche di 2.621 pazienti deceduti a causa del virus e, tra questi, ne hanno identificati 415 affetti da demenza.
Si trattava di pazienti che presentavano al pari di altri la febbre come sintomo di esordio, ma che, a differenza di chi non aveva demenza, mostravano meno frequentemente, probabilmente proprio a causa dei problemi cognitivi, i sintomi tipici dell’infezione, quali dispnea (68,8% vs. 74,3%) e tosse (30,9% vs. 40,3%). Avevano inoltre minori possibilità di ricevere terapie di supporto e di avere accesso alla terapia intensiva, e mostravano un peggioramento clinico più rapido e aggressivo rispetto agli individui con cognizione piena.
I ricercatori hanno tracciato di questi pazienti anche un identikit fisico, da cui risulta che, rispetto agli individui senza demenza, si trattava più frequentemente di soggetti donne e più anziani. Dal punto di vista clinico, sempre rispetto a chi non aveva demenza, in quei pazienti si verificava una maggiore prevalenza di fibrillazione atriale, di ictus e una minore prevalenza di diabete, di cancro attivo e di obesità.
Secondo i ricercatori, è assai probabile che sia stata proprio la demenza ad influenzare significativamente e negativamente la sintomatologia, il decorso e la gestione delle persone colpite, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalle comorbilità. La demenza infatti ha ostacolato la tempestiva individuazione dei primi segni e sintomi dell’infezione da SARS-CoV-2, con conseguente diagnosi tardiva e comparsa di complicanze gravi che hanno potuto evolvere più rapidamente verso la morte.
I meccanismi di difesa più deboli, lo stretto contatto fisico con chi si prende cura di loro, la scarsa aderenza alle misure di salvaguardia (la distanza sociale, l’uso di mascherine) e alle pratiche igieniche (ad esempio, lavarsi le mani) hanno esposto queste persone a un maggiore rischio di infezione. Inoltre, la difficoltà nel segnalare i sintomi e la presenza manifestazioni atipiche e fuorvianti (ad es. confusione e quadri di delirium, esacerbazione dei sintomi neuropsichiatrici) hanno potuto contribuire ad una diagnosi e ad una gestione tardiva. Non stupisce perciò che questi pazienti abbiano anche mostrato un peggioramento clinico più accentuato e aggressivo, come suggerito dai tempi più brevi tra l’insorgenza clinica, il ricovero ospedaliero e la morte.
Lo studio conferma che le persone affette da demenza e da Alzheimer sono particolarmente vulnerabili al COVID-19 e devono essere protette per ridurre l’impatto umano, sociale e sanitario della pandemia in corso e di quelle future.
Foto di Gustavo Fring da Pexels
Potrebbe interessarti: