Negli ultimi 3 decenni i progressi della medicina nell’ambito delle malattie cardiache e vascolari è stato straordinario e hanno portato a una netta riduzione della mortalità, per queste cause, nei paesi industrializzati e a un consistente allungamento della attesa di vita. Rimane tuttavia il fatto che le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano ancora la prima causa di morte. Ne parliamo con Lorenzo Marchini.
Come si spiega questo fenomeno? In effetti, la mortalità da malattie che interessano le coronarie, cioè i vasi sanguigni che portano ossigeno e nutrimento al cuore, è diminuita dagli anni ’80 di oltre il 50% in Europa, sia pure con diversa rilevanza nelle diverse regioni europee. Questo decremento si è manifestato prevalentemente nelle nazioni europee a più alto reddito. L’Italia è considerata dalla Società Europea di Cardiologia un’area a “basso rischio”, soprattutto quando la si confronta con i paesi dell’est europeo. Tuttavia questo trentennale andamento positivo tende attualmente a ridursi, fino quasi all’annullamento, per fattori in parte identificati, come l’invecchiamento della popolazione e l’incremento, nei paesi ad alto tenore di vita, della obesità e del diabete, ma anche per altre cause che sono meno chiaramente definibili. Una di queste potrebbe essere la crisi economica che ha investito l’Europa dal 2008 e che non è stata ancora superata.
Uno studio molto recente riferito all’andamento della mortalità per le malattie cardiache e vascolari negli Stati Uniti, ma extrapolabile anche all’Europa, dal 2000 al 2014, mostra comela riduzione di queste patologie sia pressoché costante fino al 2010-2011, per poi tendere ad appiattirsi.
Come può avere influito e come potrà influire la crisi economica sull’andamento negativo di alcuni parametri sanitari, come quelli da lei ricordati? Le grandi tempeste economiche tendono ad avere effetti su tanti aspetti della nostra vita e non ci deve sorprendere il fatto che anche la salute ne sia influenzata. Ricordo che la spesa per la sanità nei paesi industrializzati, è tra gli elementi che maggiormente incidono sulla spesa pubblica, anche se il sistema sanitario italiano è tra i meno dispendiosi rispetto ad altri sistemi occidentali. Anche a livello individuale, le minori risorse economiche possono indurre le singole persone a trascurare gli aspetti relativi alle misure preventive, ricorrendo alla sanità solo nelle fasi più conclamate della malattia, quando si manifestano i sintomi.
Attraverso quali interventi si è riusciti a ridurre, nell’arco di 30 anni e in modo così significativo, la mortalità dovuta a malattie cardiovascolari? È stato più importante l’intervento preventivo o il progresso nella efficacia della medicina nell’intervenire nelle fasi acute della malattia? Ritengo che ambedue le componenti abbiano giocato un ruolo importante e sinergico. Tuttavia, la campagna d’informazione e d’intervento legislativo sul fumo, sulla esigenza di una dieta e di una attività fisica adeguata e del controllo del peso corporeo, siano stati i fattori di maggiore importanza, insieme alla maggior consapevolezza da parte dei medici, della necessità di identificare alcune categorie di soggetti maggiormente a rischio, come quelli affetti da ipertensione arteriosa o da alterazioni del metabolismo dei grassi o degli zuccheri (come ipercolesterolemia e diabete) e di trattarli con farmaci efficaci. Certamente un ruolo straordinario hanno giocato anche gli interventi terapeutici in corso di malattia, che ci hanno consentito, tra gli altri risultati, di ridurre significativamente la mortalità nella fase acuta dell’infarto miocardico.
Esiste uno specifico aspetto della prevenzione cardiovascolare su cui ritiene di doversi particolarmente soffermare? Penso che sia opportuno aggiungere qualche cosa sul problema della sedentarietà, sia per la sua importanza in quanto fattore di rischio per malattie cardiovascolari, sia per il fatto che questo dato è spesso trascurato, o insufficientemente indagato nei nostri colloqui con i pazienti. Uno studio pubblicato su The Lancet di 4 anni fa attribuiva alla sedentarietà lo stesso livello di nocività del fumo. Senza volere indurre allarmismi, è indubbio che lo stare seduti per molte ore al giorno sia nocivo per il nostro organismo. La tendenza alla meccanizzazione e alla informatizzazione di molte attività umane, che richiedevano in passato un intervento “muscolare”, ha fatto sì che l’impegno fisico richiesto da molte attività lavorative sia stato ridotto al minimo. Un recentissimo studio, reso pubblico online, stabilisce criteri più severi di quelli elencati nella tabella riportata (proposti dalla Società Europea di Cardiologia). In sintesisecondo questo studio, per combattere gli effetti negativi di una lunga inattività (le classiche 8 ore davanti a un computer) sarebbe necessaria un’ora di esercizio fisico di intensità moderata, come per esempio una camminata a passo vivace (5,6 Km./ora) o una corsa
in bicicletta a 16 Km./ora, al giorno.
Al di là delle troppo facili e in parte discutibili schematizzazioni, il messaggio che dobbiamo cogliere è il dato della importanza della attività fisica, che sembra avere tra l’altro, anche un effetto preventivo su alcune neoplasie e sul deterioramento cognitivo. Persone senza malattie cardiovascolari, che intendano intraprendere un esercizio fisico di intensità moderata, non necessitano di particolari accertamenti diagnostici. Diverso deve essere l’atteggiamento nei confronti di persone con storia pregressa di malattie cardiocircolatorie o con significativi fattori di rischio (es. fumatori, ipertesi etc.) che intendano passare dalla sedentarietà all’attività fisica moderata. In questi casi è opportuna una valutazione clinica e alcuni casi un test da sforzo. Il controllo medico è certamente necessario anche nei soggetti anziani, per i quali l’attività fisica rappresenta una preziosa risorsa, utile non solo per prevenire le malattie cardiovascolari, ma anche, e forse ancora di più, per il mantenimento della efficienza psicofisica globale.
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