Nei giorni scorsi il Presidente dell’Inps Tito Boeri ha presentato alla Camera il Rapporto 2017 dell’Istituto previdenziale. Nella sua Relazione Boeri ha evidenziato il nuovo ruolo che l’Istituto deve assumere in relazione alla congiuntura economica che il Paese sta vivendo e ai possibili scenari futuri.
Tra le sfide che dovranno essere affrontate nel medio lungo periodo. Boeri ha parlato dei fenomeni migratori, che vanno visti anche come opportunità in un Paese con poche nascite, e ha poi insistito sulla necessità di rivalutare e sostenere la relazione positiva fra occupazione femminile e natalità,
Il Presidente Boeri ha rassicurato sulla sostenibilità del sistema previdenziale del nostro Paese, anche grazie all’uso efficiente della macchina INPS e a una complessa riforma organizzativa che ha spostato il baricentro della dirigenza sul territorio. L’Istituto nel 2016 è costato 3.660 milioni, a fronte di circa 440 miliardi di prestazioni erogate, contro i 4.531 del 2012, e con una diminuzione del 20% del personale.
Per quanto riguarda le pensioni future, il ragionamento di Boeri parte dalla preoccupazione per la minore appetibilità delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato dopo la fine degli incentivi contributivi del 2015, e invita la politica a “riconsiderare il regime dei contratti a tempo determinato, che trasferiscono troppa parte del rischio di impresa sul lavoratore, potendo essere rinnovati ben 5 volte nell’arco di 3 anni”.
Il problema è poi l’intreccio fra precarietà e previdenza. Frequenti episodi di non occupazione all’inizio della carriera lavorativa hanno effetti rilevanti sulle pensioni future di chi è nato dopo il 1980 ed è perciò interamente assoggettato al regime contributivo. Da qui, la proposta di coprire in parte questo rischio fiscalizzando una componente dei contributi previdenziali all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato.
Ciò significa che lo Stato paga una parte dei contributi previdenziali, incentivando le assunzioni e incrementando la posizione contributiva per la pensione. Una misura che assicurerebbe sin d’ora uno zoccolo minimo di pensione a chi inizia a lavorare, oltre ad incoraggiare le assunzioni a tempo indeterminato.
Mentre, secondo Boeri, bloccare l’adeguamento dell’età pensionabile agli andamenti demografici non è affatto una misura a favore dei giovani in quanto scarica sui nostri figli e sui figli dei nostri figli i costi di questo mancato adeguamento.
Non la pensano così i Presidenti delle Commissioni lavoro di Camera e Senato, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, i quali fanno un appello a Governo e Parlamento per il No all’adeguamento dell’età di pensionamento alle aspettative di vita che porterà l’uscita dal lavoro a 67 anni (66 e 11 mesi per la precisione) già a partire dal 1° gennaio 2019.
Infatti, in base agli scenari demografici Istat, a gennaio 2019, per effetto della legge Fornero, l’età per la pensione di vecchiaia salirebbe da 66 anni e 7 mesi a 67 anni. Poi si andrebbe a 67 anni e 3 mesi nel 2021, 68 anni e 1 mese nel 2031, 68 anni e 11 mesi nel 2041, 69 anni e 9 mesi nel 2051 portando un impatto “inconcepibile oltre che irragionevole”, secondo Damiano e Sacconi.
Per scongiurare l’aumento automatico dell’età pensionabile, occorre dunque lavorare a “un rinvio strutturale dell’adeguamento dell’età di pensione all’aspettativa di vita” con norme ad hoc da emanare tempestivamente, sia per evitare il gradino del 2019, che per distribuire “nel corso del tempo l’aumento dell’età previsto”. Una soluzione potrebbe essere quella di allungare l’adeguamento (ad esempio a cinque anni contro gli attuali tre; due dal 2021) o evitare lo scatto nel 2019.
In Europa – hanno fatto notare Sacconi e Damiano – non ci sono casi comparabili a quello italiano: in Austria l’età per la pensione è di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne; in Belgio e in Danimarca è 65 anni per tutti; nel Regno Unito 65 anni (ma a partire da novembre 2018); in Germania si arriverà a 67 anni solo nel 2029.
Senza contare che a peggiorare il quadro dei futuri pensionati, c’è anche il meccanismo legato ai coefficienti di trasformazione, i valori che concorrono al calcolo dell’assegno maturato con criteri contributivi, usati per “riequilibrare” – spiega Sacconi – gli aumenti fuori misura, ma che paradossalmente, finiscono per penalizzare chi lavora più a lungo. Risultato: non solo si andrebbe in pensione sempre più tardi ma anche con assegni più bassi.