Con la sentenza n. 6593/19 la Corte di Cassazione ritorna sulla questione – di grande interesse – del riparto dell’onere probatorio nell’ambito della responsabilità medica nel caso in cui si agisca deducendo una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c..
Il Giudice ha ribadito ancora una volta il proprio recente (ma consolidato) indirizzo sul tema precisando che in ambito di responsabilità professionale sanitaria, la previsione dell’art. 1218 c.c. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. Chi invoca il risarcimento, pertanto, deve sempre dimostrare che il peggioramento dello stato di salute del paziente sia dipeso dalla condotta dei sanitari.
La previsione dell’art. 1218 c.c. trova giustificazione della opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente o non esattamente adempiente l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cass. n. 13533/01). La “maggiore vicinanza” del debitore non sussiste – evidentemente – in relazione alla prova del nesso di causalità fra condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore che, invece, si pone in una posizione di “equidistanza” tra le parti contrattuali.
Non potendosi applicare il criterio della maggiore vicinanza della prova previsto dall’art. 1218 c.c. si rientra nell’ambito del principio generale dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., che onera colui che vuole far valore un diritti di provare i fatti a suo fondamento. L’attore, dunque, deve provare il nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale (la derivazione dell’evento lesivo dalla condotta del sanitario) che della causalità giuridica (individuazione delle singole e specifiche conseguenze pregiudizievoli), tanto più che quest’ultimo appare “più vicino” al danneggiato rispetto che al danneggiante.
Una diversa opzione interpretativa presupporrebbe a carico dell’asserito danneggiante una prova liberatoria rispetto al nesso di causalità, ma ciò, come già anticipato, si porrebbe in insanabile contrasto con il criterio della c.d. maggior vicinanza della prova, che permea l’intero sistema dell’onere probatorio. Anche il fatto che l’art. 1218 c.c. preveda l’onere per il debitore di dimostrare che l’inadempimento sia “derivante da causa a lui non imputabile” non è un argomento valido per sostenere la tesi contraria a quella accolta dalla Cassazione, in quanto la “causa” menzionata dal predetto articolo riguarda la “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere” e, dunque, si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, cioè su di un piano del tutto differente rispetto a quello della causalità tra evento e danno (Cass. 18392/17).
In definitiva, non vi è dubbio che “è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento”, onere che va assolto “dimostrando con qualsiasi mezzo di prova che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del ‘più probabile che non’, la causa del danno” (Cass. n. 18392/17).
Fonte: Altalex
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