“La continuità assistenziale – scrive il Prof. Roberto Bernabei, Presidente di Italia Longeva, nella presentazione dell’indagine su questo tema – è presa in esame dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come uno degli indicatori del buon funzionamento di un Servizio Sanitario. E proprio di recente, a Parigi, i ministri della salute dei “sette grandi” hanno ribadito che la continuità assistenziale, programmata e integrata tra i diversi professionisti e luoghi di cura, è una risposta ineludibile in una società che invecchia sotto il peso delle malattie croniche. Dopo l’integrazione socio-sanitaria, la continuità assistenziale è la parola che oggi utilizzano maggiormente tutti coloro che si occupano di long-term care.
Per tutto ciò è stato pensata una indagine, per capirne di più e condividerne le criticità e le best practices da cui imparare qualcosa. I servizi e i “luoghi fisici” della continuità assistenziale – l’assistenza domiciliare, le residenze sanitarie e le case della salute, ma anche gli ospedali di comunità gestiti dai medici di medicina generale e l’operato quotidiano degli infermieri di comunità – sono il focus di questa indagine che Italia Longeva ha svolto con la Direzione Generale della Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute“.
Passando ai risultati dell’Indagine, curata da Davide Vetrano, geriatra dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e ricercatore al Karolinska Institutet di Stoccolma, si evince che la continuità assistenziale è già realtà in alcune aree del nostro Paese, seppur con differenze regionali nell’impianto organizzativo e burocratico. La ricerca, racconta le esperienze virtuose di presa in carico dei pazienti cronici in otto regioni: Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Toscana e Umbria. Si tratta di 8 best practice di gestione delle cosiddette dimissioni difficili e 9 modelli efficienti di organizzazione delle reti territoriali.
La continuità assistenziale si realizza prima di tutto sul territorio, con un sistema di cure più prossimo ai cittadini e ai loro bisogni, attraverso la costruzione di una rete di servizi sociosanitari capillare, flessibile e facilmente accessibile, in grado di offrire un’assistenza personalizzata e multidisciplinare. Nelle esperienze analizzate il protagonista della rete è il medico di medicina generale, che non agisce più come professionista singolo, ma “esce” dall’ambulatorio per aggregarsi con altri colleghi, trasferendo ad esempio il proprio studio all’interno di strutture polifunzionali come le Case della salute, o ancora indossando il camice del medico di reparto, come nel caso degli Ospedali di comunità.
Ma la rete, per funzionare bene, deve poter disporre di adeguati servizi di assistenza domiciliare (ADI) e residenzialità assistita (RSA) per la presa in carico dei pazienti più complessi. Si tratta, tuttavia, di servizi ancora carenti e sottopotenziati rispetto alla domanda di una popolazione che invecchia. Secondo il Ministero della Salute, solo il 2,7% degli over-65 usufruisce di servizi di ADI, e solo il 2,2% di un posto in RSA.
E l’ospedale? Si occupa delle emergenze e delle patologie acute, ma nelle buone pratiche prese in esame dialoga pure con il territorio per la gestione del rientro in comunità (dimissioni protette). Nei 7 modelli di dimissione protetta analizzati, la sinergia massima tra ospedale e territorio si realizza quando sono le stesse Centrali di continuità territoriali ad entrare in ospedale per prendere in carico il paziente prossimo alla dimissione, o addirittura, quando è l’ospedale stesso che accompagna il paziente durante il processo di dimissione dall’ospedale verso il proprio domicilio continuando a prendersene carico anche dopo.
Presupposto, affinché ciò avvenga, conclude la Ricerca è la disponibilità di un sistema informatico per lo scambio di informazioni sul paziente tra i vari specialisti, in tempo reale. Elemento che identifica un’area suscettibile di miglioramento, tanto quanto l’utilizzo delle tecnologie (monitoraggio a distanza del paziente, impiego di presidi tecnologici), essenziali per realizzare una presa in carico efficace, continuativa, sostenibile e del tutto autonoma rispetto al circuito dell’ospedalità.
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